Intervista a Riccardo Fassone

Originally published here on the 20th of May 2016

Videogiochi e convergenza dei mediaI videogiochi,come abbiamo sottolineato nell’articolo dedicato alla Electronic Literature Collection 3, sono entrati a tutti gli effetti tra i generi della letteratura elettronica (vedi Game).Difatti, uno dei fenomeni che interessa la letteratura elettronica è la convergenza dei media, ovvero lo sviluppo tecnologico di singoli mezzi di comunicazione che sfociano in diverse combinazioni tra loro. Nell’articolo sui Webcomics interattivi abbiamo affrontato questo fenomeno partendo dal confronto fra fumetti, letteratura elettronica e fumetti interattivi digitali. L’unione di effetti audio­visivi e testo letterario ha importanti implicazioni nella fruizione di un’opera letteraria e nel modo in cui può essere percepita. A questo si aggiunge il carattere ludico e aleatorio di alcune opere che ricordano molto i videogiochi. Alcune opere come The 12 Labors of Hercules di S. Bouchardon e Nothing You Have Done Deserves Such Praise o Game, Game, Game and Again Game di J. Nelson sono esplicitamente legati al mondo dei videogames.La storia dei videogiochi in Italia: il progetto di Riccardo FassoneI videogames sono al centro del nuovo progetto di Riccardo Fassone, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. Come spiega nel suo blog, il ricercatore vuole analizzare la storia dei videogames in Italia a partire dagli anni 1970 usando un approccio metodologico aperto.Il ricercatore osserva infatti che: “non esiste una storia dei media (…) un medium deve sempre essere analizzato all’interno di un sistema di diversi media, soprattutto la storia dei videogiochi in Italia”. Per la sua ricerca sulla storia dei videogiochi in Italia, Fassone si avvale quindi di tre metodi:

  • intervista
  • ricerca negli archivi
  • ricerca nelle collezioni private, nei mercati delle pulci e negli archivi online

La ricerca si concentra inoltre su tre temi:

  • storia della produzione
  • stile
  • teorie portate avanti da giocatori, non giocatori, produttori e critici

Con questo progetto Fassone auspica un rapporto più intenso tra i game studies e le discipline umanistiche, con l’intenzione di promuovere anche in Italia un incontro tra lo studio dei videogiochi e aree come i media studies, i film studies e le materie umanistiche in generale.L’intervistaPer conoscere meglio questo affascinante progetto, abbiamo fatto qualche domanda a Riccardo che ci ha gentilmente risposto. L’intervista la trovate qui.

Buona lettura!

GG: Come ti sei avvicinato al mondo dei videogames e allo studio della storia dei videogames?

RF: Mi sono avvicinato ai videogiochi da giocatore. Sono cresciuto nell’epoca d’oro del 16­bit e di conseguenza il videogioco è stato parte della mia quotidianità per molto tempo. Mentre studiavo all’università ho lavorato come traduttore e localizzatore di videogiochi. Una volta laureato in storia del cinema e dei media, ho realizzato che il campo dei game studies mi interessava particolarmente, sia perché il videogioco mi sembrava un oggetto ricco di contraddizioni e sfumature, sia perché i testi accademici sui videogiochi che avevo letto mi sembravano pieni di teorie e considerazioni che avrei voluto discutere. L’aspetto storico è arrivato un po’ più tardi, quando ho cominciato a leggere i testi “classici” di storia del videogioco. Mi sono parsi tutti simili, tutti “canonici”, tutti interessati ai grandi eventi, alle grandi rivoluzioni, ai capolavori e agli autori. A me interessano anche (soprattutto?) i videogiochi minori o decisamente brutti.

GG: Quale aspetto dei videogames ti interessa in particolare?

RF: Mi interessa il fatto che siano la forma che il gioco, forse l’attività umana più antica in assoluto, ha assunto quando ha incontrato l’informatica, che per certi versi è costitutivamente sempre “nuova”. Come conseguenza di questo incontro, mi interessa che l’attività ludica, che si vorrebbe libera e liberatoria, sia così paradossalmente adatta al mezzo informatico che è per sua natura codificato, procedurale e in alcuni casi addirittura autoritario. Insomma, mi interessa la contraddizione rappresentata dal termine stesso computer game.

GG: Come valuti la storia dei videogames in Italia?

RF: Come tutte le “storie locali” del videogioco (che di fatto significa tutte le storie non­anglosassoni e non­pponiche) c’è molto da scoprire, perché molto poco si è scritto e si è conservato sulla produzione italiana. Non saprei dire se è una storia che ha caratteri di “italianità” particolari, piuttosto direi che è una storia fortemente legata all’assetto dell’industria culturale italiana nei diversi decenni. Mi interessa, ad esempio, la diffusione praticamente illimitata della pirateria digitale negli anni Ottanta e Novanta, prima in modi del tutto “legittimi” (ad esempio le cassette per C64 vendute in edicola), poi in forme più clandestine ma comunque estremamente diffuse. Dà l’idea che a lavorare nell’industria del videogioco in Italia non fossero in passato solo quelli che i videogiochi li facevano (che pure erano molti), ma anche quelli che li ri­facevano, li copiavano, li distribuivano, ecc. Oggi è un’industria molto frammentata, con alcuni centri di aggregazione che si stanno sviluppando, ma che per il momento esistono in un contesto che in molti casi è in costante equilibrio tra il professionismo e l’hobbistica.

GG: Secondo te quali sono i momenti salienti della storia dei videogames in Italia?

RF: Direi che una delle fasi più interessanti è quella del C64, una macchina che in Italia è stata per molti versi affine a quello che è stato lo ZX in Gran Bretagna, su cui si sono formati centinaia di programmatori, e intorno alla quale si è solidificata una “scena” di persone con interessi, percorsi e obiettivi affini. Gli anni Ottanta sono stati un periodo di vera ebollizione di questo movimento. Ne è testimonianza il fatto che tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta sono accadute cose rilevanti come la produzione da parte di Simulmondo dei videogiochi ispirati a Dylan Dog, che si trovava al picco di popolarità, o la fondazione di aziende come Milestone. Oggi forse c’è un fermento simile, probabilmente non manca molto al momento in cui un gioco indie italiano diventerà un successo inatteso come Spelunky o The Binding of Isaac. La ricostruzione storica dei videogiochi in Italia serve anche a rivalutare questo fenomeno culturale.

GG: Perché è importante secondo te proporre una storia dei videogames in Italia?

RF: In generale credo sia interessante ricostruire le storie locali dei videogiochi, in relazione proprio all’idea di storiografia “non canonica” di cui parlavo prima. Ci sono molte cose che non sappiamo della storia dei videogiochi, e per lo più si trovano in luoghi in cui non penseremmo di cercarle. C’è poi il fatto che, sebbene siamo testimoni ogni giorno della pervasività del videogioco in Italia, questo è rimasto una forma di produzione culturale per molti aspetti sommersa. Non conosciamo a fondo i discorsi, gli approcci, le comunità che si sono costituiti intorno a questo medium in Italia. Per questo non mi interessa solo l’industria, ma anche settori che producono discorsi e teorie, come la critica videoludica, lo spazio dei forum, dei blog e di YouTube, le convention e gli incontri.

GG: Per la tua analisi storica dei videogames hai optato per il metodo della triangolazione: tre temi e tre metodi. Ci puoi spiegare i vantaggi di questo metodo?

RF: Credo che lavorare sulla storia di un medium come il videogioco presupponga il porsi un obiettivo sensato e realizzabile. Si rischia, altrimenti, di trovarsi con una storia che “scappa” da ogni lato. Quando si parla di videogiochi ci si trova di fronte a questioni tecnologiche, stilistiche, estetiche, sociali, storiche, ecc. Nel mio caso ho deciso di restringere il campo a tre questioni: la storia e le configurazioni dell’industria, la creazione e i contenuti dei discorsi critici sui videogiochi, l’evoluzione e l’avvicendarsi delle componenti stilistiche ed estetiche nel videogioco italiano. Per condurre questa ricerca utilizzerò tre metodi: una serie di interviste ai professionisti del settore, una ricerca d’archivio su fonti come riviste e altre pubblicazioni, e un “incontro diretto” con gli oggetti tramite l’acquisizione e la consultazione non solo di giochi, ma anche di manuali d’istruzioni, confezioni, poster, e altri materiali “secondari”.

GG: Uno dei tre temi, o prospettive, che hai scelto per la tua tesi è lo stile dei videogames. Ci potresti illustrare in linea generale gli elementi estetici di un videogame e quelli che ti interessano in particolar modo per la tua tesi?

RF: Mi interessa capire se ci sono ricorrenze estetiche o stilistiche nella produzione italiana. Cioè se (e come) i designer e i developer italiani si siano influenzati a vicenda. Mi interessa anche capire da dove provengono queste caratteristiche. Si tratta di scelte legate alle limitazioni e alle possibilità delle macchine o dei software con cui si lavora? Oppure di influenze più sottili, legate magari a rapporti personali tra i designer? E, ancora, dove si trova lo stile di un videogioco? Si tratta di una questione figurativa? O piuttosto nelle sue meccaniche, nel modo in cui è programmato e costruito?

GG: Accenni brevemente al transmedia storytelling. Esistono secondo te delle analogie o delle influenze reciproche tra i videogames e la letteratura?

RF: Certamente esistono, a diversi livelli. Da un lato in Italia il rapporto tra videogioco e parola scritta è storicamente molto forte. Basta pensare ai già citati “fumetti interattivi” di Simulmondo, o al lavoro sui romanzi di Valerio Evangelisti fatto in anni più recenti. Dall’altro, per lungo tempo i videogiochi sono stati parte di quella galassia di oggetti “per ragazzi” a cui appartengono anche romanzi di vario genere (fantasy, horror, ecc.), oggetti ibridi come i libri­game, fumetti, e altre pubblicazioni letterarie o para­letterarie. Insomma, la questione non è solo quella dell’adattamento in un senso o nell’altro (videogiochi tratti da romanzi o viceversa), ma anche quella del contesto culturale e di consumo in cui alcuni media coesistono, condividendo pubblici e spesso anche produttori. Il transmedia storytelling è un concetto molto noto e anche molto di moda, non sono del tutto sicuro che sia sempre lo strumento migliore per leggere certe dinamiche inter­mediali, ma certamente in alcuni casi – soprattutto quando esiste una produzione centralizzata che segue tutte le fasi dell’espansione “transmediale” – è un processo affascinante. Non credo però che in Italia si siano mai fatti esperimenti compiuti di transmedia storytelling che comprendessero anche il videogioco.

GG: In che modo secondo te le nuove tecnologie (AI, VR, AR) influenzeranno il modo di realizzare e fruire i videogames?

RF: È difficile dirlo. I discorsi intorno al videogioco sono da sempre oggetto della “sindrome del cambio di paradigma”. Ciclicamente si legge che questa o quella tecnologia, questa o quella innovazione cambieranno per sempre il modo in cui giochiamo. In realtà i cambi di paradigma radicale sono molto rari, e spesso tecnologie vecchie e nuove, e modi di progettare i videogiochi vecchi e nuovi coesistono per lungo tempo senza grandi attriti. Credo che la realtà virtuale sia uno dei sogni più antichi del videogioco (ne parlavamo, e la provavamo in posti tipo il Futurshow, già negli anni Novanta) e allo stesso tempo uno di quelli su cui si sono spese più parole. Mi auguro che si superi l’idea che la realtà virtuale debba essere del tutto fotorealistica e immersiva e si cominci a pensare a modi alternativi di utilizzarla per esperienze non­realistiche e bizzarre. Insomma, vorrei vedere meno ville toscane ricostruite e più allucinazioni

GG: Una questione cruciale che riguarda videogames, letteratura elettronica e arte digitale in generale è quella della conservazione. Nel saggio “Acid­Free Bits”, ad esempio, Nick Montfort e Noah Wardrip­Fruin propongono una serie di accorgimenti utili per la creazione di opere “durevoli”. Qual è la tua opinione a riguardo e quali sono secondo te le strategie migliori per la conservazione dei videogames?

RF: Non sono convinto che i produttori di videogiochi debbano necessariamente aspirare a costruire oggetti con una qualche forma di permanenza. Mi piacciono e mi affascinano molto gli esperimenti effimeri, i giochi che scompaiono, o che non sono mai loro stessi, che si aprono a modifiche, reinterpretazioni, aggiunte ed emendamenti. Ma è, ovviamente, una preferenza personale. Penso che la questione della conservazione sia importante e che in Italia sia affrontata molto seriamente ed efficacemente dall’Archivio Videoludico di Bologna. Altrove, ad esempio negli Stati Uniti, istituzioni come il National Museum of Play di Rochester stanno facendo un lavoro simile. Nel caso del videogioco rimane una domanda la cui risposta può essere solo parziale, e cioè, che cosa decidiamo di conservare? I reperti fisici, che probabilmente smetteranno di funzionare o non saranno più eseguibili su macchine moderne? O il gameplay e dunque filmati, riprese, racconti di gioco? O, ancora, gli artefatti collaterali come manuali, poster, pubblicità, ecc.? Da un certo punto di vista la conservazione è sempre una battaglia persa in partenza; il caso del videogioco ci costringe a chiederci se questi oggetti non debbano essere manipolati, riassemblati ed eventualmente “rovinati” anziché conservati.Ringraziamo Fassone per l’intervista e gli auguriamo buon lavoro. E voi cosa ne pensate del suo progetto?

Nota biografica:Riccardo Fassone è assegnista di ricerca presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. In passato è stato visiting researcher al Georgia Institute of Technology e Research Fellow presso il The Strong National Museum of Play di Rochester (NY). Le sue aree di interesse sono la storia dei videogiochi e il loro rapporto con gli altri media. Ha pubblicato articoli e saggi in pubblicazioni nazionali e internazionali e il suo primo libro uscirà per Bloomsbury alla fine del 2016.